Alessandro Righetticenni critici
VASCO CORRADELLI - UN ARTISTA AUTENTICO TRA MODERNITA' E CLASSICITA'
Testo di Alessandro Righetti
L’arte di Vasco Corradelli ha potuto nel 2006 finalmente uscir fuori dalle pur nobili mura sanbenedettine e farsi conoscere a Mantova ad un più vasto pubblico e ad una attenta critica. Questo grazie ad un’ampia e intensa retrospettiva, sapientemente curata da Mauro Corradini alla Galleria Sartori, che con puntualità ci ha restituito la qualità autentica della sua pittura.
Si è dunque compiuto un primo importante passo verso un doveroso risarcimento, ponendo termine ad un lungo assordante silenzio che ha avvolto questo artista, in vita e dopo la morte, avvenuta nel 1993. Un silenzio tuttavia non certo originato dal paese natio, che anzi tramite il cenacolo fervido dei suoi pittori, poeti e intellettuali, da Giorgi a Bellintani, da Bernardelli a Pittigliani fino ai più giovani Vezzani e Pavesi, lo ha sempre seguito e onorato con una stima e una amicizia che egli con affetto contraccambiava. Un silenzio che egli stesso coltivava e alimentava nel giardino segreto della sua modestia e riservatezza estreme,
spinte con consapevolezza negli ultimi anni fino al nascondimento.
Un silenzio che in qualche misura abbiamo purtroppo assecondato anche noi, quando non abbiamo saputo per tutti questi anni vedere, capire, esplorare la storia di questo artista, così vicina nella sua dimensione poetica e spirituale ma così singolarmente diversa nella realtà degli accadimenti rispetto a quelle degli amici sanbenedettini. La storia di un talento precocissimo ( Corradelli ha circa dieci anni quando intorno al 1920 dipinge, con estro e maestria incredibili, un idillio come “Boschetto con lanca del Po”);
Sono gli anni 1929-1930, gli stessi anni in cui la “Scuola romana”( la mitica corrente che dagli anni venti agli anni quaranta, tra espressionismo, tonalismo e realismo, si snoda in fasi diverse ma secondo coerenti canoni antinovecentisti) si fa conoscere e apprezzare con importanti mostre e prende il nome di “ Scuola di via Cavour “: una denominazione coniata da Roberto Longhi che di questo tratto ( il più breve ma forse il più significativo) si appassiona, divenendo fervente compagno di strada di artisti come Mafai e Scipione, Antonietta Raphael e Mazzacurati, insieme anche al poeta Ungaretti. Dunque, un nutrientissimo impatto immediato per Corradelli a Roma quanto alla contemporaneità, a compimento succoso dello straordinario patrimonio che, da Michelangelo e Raffaello fino al Novecento, la capitale poteva offrire ad un ragazzo disceso dalle rive del Po, assetato di sapere e di fare dell’arte.
Ma il suo primo tempo felice a Roma è di assai breve durata, se la chiamata alle armi già nel 1932 va ad iniziare una dolente odissea che tra guerra e prigionia, dalla Jugoslavia alla Libia e alla Sicilia, durerà fino al 1944 quando, liberato dagli americani proprio a Roma, egli potrà finalmente riannodare quel prezioso filo che si era spezzato dodici anni prima. Un tempo enorme, se lo si pensa sottratto ad una vita nel suo pieno fiorire votata all’arte, tuttavia non sufficiente a fiaccarne l’immensa passione, che anzi riceverà qui nuovi e fecondi stimoli. Corradelli infatti, appena tornato a Roma, lavora in un laboratorio di restauro e contemporaneamente frequenta una scuola d’arte privata. E appare emblematico, quasi un fausto segno del destino, che in quel 1944 egli abbia potuto vedere e meditare dell’ultima fase della Scuola romana, quella “realista”, l’epilogo più inquieto e drammatico, attraverso soprattutto la mostra “L’arte contro la barbarie”, tenutasi immediatamente dopo la liberazione, presenti tutti gli artisti più importanti che a quella scuola in vario modo e in tempi diversi si erano riferiti, da Mafai (Scipione era morto giovanissimo nel 1933) a Mazzacurati, da Guttuso a Cagli, da Leoncillo a Mirko, da Omiccioli a Purificato. E in quel 1944, tempo non certo di pace per il mondo che tante tragedie avrebbe dovuto ancora patire ma di generali speranze e di personale serenità dopo i lunghi anni terribili, Corradelli dipingerà a Roma tre ritratti di grande forza e straordinario spessore poetico (“Adriana”, che diverrà presto sua moglie, “Ragazzo” e “Felder”).
Il ritorno a San Benedetto è nella primavera del 1946 e subito Corradelli riprende a dipingere, senza più soluzione di continuità e con totale dedizione. Riallaccia e rinsalda l’amicizia con Antonio Ruggero Giorgi, che già aveva conosciuto prima della guerra, e avvia nuove ed importanti relazioni con personaggi di spicco dell’arte, delle lettere e della cultura come appunto il poeta Bellintani, i pittori Giovanni Bernardelli ed Ermanno Pittigliani, lo scultore Giuseppe Gorni. Riprende con il ritratto, il tema diletto che sarà ancora presente in ogni fase della sua arte (si pensi, per tutti, alla pregnanza di “Ninetto” del 1946), cui negli anni Sessanta si aggiungerà una preziosa serie di nature morte, splendide per colore, luce, atmosfera e rigorose per una forma che tuttavia tende progressivamente a sfaldarsi.
Processo che si intensificherà nel paesaggio, che sempre più diverrà punto centrale del suo operare. A rapirlo infatti saranno i cieli e le terre della grande pianura e le acque del grande fiume, l’incanto segreto e la struggente malìa dei loro colori e delle loro luci, dei loro misteri e dei loro silenzi, gli uomini fieri che vi abitano, con le loro fatiche e le loro pene, la loro fantasia e la loro saggezza, la loro cultura, la loro storia, la loro memoria. Si susseguono dunque, in lunga commossa teoria, i cari luoghi: la pianura calcata da buoi e contadini, le boschine e le case sull’argine, le golene e i burchielli sul Po: gli usati antichi riti: l’uccisione del maiale, la mietitura, la raccolta del grano. Con accenti e gradazioni di luce, colore, atmosfera anche sensibilmente differenti, a seconda del prevalere del lato inquieto o sereno della sua emozione.
Emblematico e toccante al riguardo appare il raffronto tra due delle ultime opere dell’ artista: “La tempesta” del 1990, allegoria infuocata e sfatta dei travagli della vita, e “Cipolle e patate”, tersa e sorridente rappresentazione di frutti tra i più umili della terra, sulla terra posati affettuosamente e illuminati da una dolcissima luce vespertina, a rendimento di grazie: forse presagio, ineffabile, d’un acquetato congedo.
E qui si potrebbero chiudere i conti, trovati perfettamente in ordine, di questo artista che ha vissuto e operato ben dentro un ambiente culturale e poetico di alto profilo ma con originalità e libertà, se non dovessimo ancora parlare, proprio a chiarimento di queste ragioni, delle sue brevi ma folgoranti incursioni nel “sacro”. Dove per sacro intendiamo non solo la figura classica del Cristo morente, proposta in alcune potenti drammatiche rappresentazioni degli anni Settanta (del resto l’intera opera di Corradelli sembra a noi impregnata di autentica spiritualità), ma anche l’altra ancor più sconvolgente irruzione nel campo di una religiosità “universale” che dunque è anche civile, sociale, politica nel senso nobile, cioè strettamente connessa all’etica. Pensiamo a quelle due opere “I Relitti-Purificazione” e “Alle cinque della sera”, che prima ancora di costituire un brano d’arte di straordinario impatto poetico da ascrivere ad una o ad altra tendenza – si è parlato di surrealismo, astrattismo e metafisica ma paiono a noi appartenere ancora all’ambito dell’espressionismo, semmai con una ascendenza romantica – sono un alto grido d’un artista di profonda fede che si eleva a denuncia e preghiera a difesa dell’uomo da ogni ingiustizia e violenza che contro di lui si perpetra ogni giorno nel mondo.
Ma per capire Corradelli nel profondo, come artista e come uomo, crediamo possano servire anche notizie, pervenute a noi da testimonianze degne di fede. Si racconta dunque che Corradelli considerava uno dei giorni belli della sua vita quello in cui Bernardelli, Bellintani e lui, di buon mattino, salirono insieme sul treno per Bologna, per visitare una mostra di Giorgio Morandi. E ancora si narra che egli, parlando con gli amici dei grandi maestri dell’arte del passato e del presente ai quali guardava, aggiungesse, per la sua “completezza” e per il suo eclettismo e nomadismo culturale, un altro grande del Novecento, Pablo Picasso. Dunque, Morandi e Picasso. Che dire di più? Stupefatti, ammirare e ringraziare Corradelli e i suoi amici sanbenedettini per la loro “scontrosa grazia”, il loro comune sentire e stare insieme in un libero cenacolo, fondato su una modernità ben radicata nella classicità, il loro fissare le stelle ma stando sulla terra, umili ma consapevoli e fieri operatori d’arte e di poesia.
ALESSANDRO RIGHETTI
Mantova, dicembre 2008