Gianfranco Ferlisicenni critici
Con/passione
Opere Sacre di Vasco Corradelli
Testo critico di Gianfranco Ferlisi
Questa è una storia davvero speciale. È una storia da raccontare. È la storia di un pittore. È la storia di Vasco Corradelli. Accade, talvolta, che certe storie ci creino suggestioni familiari, quasi facessero parte, misteriosamente, del bagaglio di emozioni che più ci appartiene nel profondo. E capita anche che le vicende esistenziali di un uomo ci portino ad una particolare consonanza, evochino una quotidianità altra ma vicina, quasi fraterna o personalmente vissuta. E questo facilmente succede quando ci si imbatte in personaggi che preferiscono esprimersi in un linguaggio alternativo alle parole, affidandosi ai segni dell’anima, senza troppo curarsi della notorietà o del consenso.
È appunto il caso della nostra storia speciale. Eppure anche semplicemente le singolari tappe della sua esistenza sarebbero degne di particolare attenzione. Vasco Corradelli nacque nel 1912. E cominciò subito, proprio da bambino, a disegnare e poi a dipingere, a mostrare passione e talento. Tuttavia passione e talento così evidenti e precoci, anche se incoraggiarono la sua famiglia a mandarlo a Roma, dove potesse studiare all’Accademia di Belle Arti, non portarono a realizzare gli obiettivi previsti. Perché correva l’anno 1932 e l’artista - poco più che ventenne - fu chiamato alle armi. In una vera e propria odissea, di guerra in guerra, Corradelli fu costretto a girare per il mondo per dodici lunghi anni, costretto quindi a ridimensionare, se non ad interrompere, il suo iniziale e appassionato approccio giovanile con le arti figurative. E le cose non andarono meglio quando, nel tardo 1944, si ritrovò, finalmente libero, a Roma e poi, nel 1946, nella sua casa di San Benedetto Po. Vasco Corradelli, con il suo bagaglio di studi importanti, con il suo talento tanto a lungo trascurato, con le sue travagliate vicende di guerra, rientrava in gioco, infatti, in un dopoguerra difficile e incerto, in cui le circostanze sconsigliavano, con evidenza, di intraprendere la carriera dell’artista a pieno titolo. Eppure la passione per l'arte era stata, e continuava ad essere, più forte delle difficoltà: Corradelli ricominciò a praticare la pittura, negli anni seguenti, in appartato romitaggio. La spinta espressiva gli soffiava dentro come un vento impetuoso, inducendolo a mescolare un innato sentimento della trascrizione della realtà ad una trepidazione poetica che suggeriva avventure più rischiose, spingendolo ad esplorare una zona oscura dell'anima, dove pescare alcune allucinazioni espressioniste, derive magiche e liriche.
È in questo speciale sentire che affonda l’iconografia dei suoi Cristi e delle sue Madonne. È da lì che traggono origine i contenuti sacri con i quali Corradelli riuscì a varcare i limiti dei soggetti canonici del ritratto, della natura morta e del paesaggio, cioè di quella dimensione che in pittura aveva esplorato sino alla soglia dei sessant’anni.
In mostra tredici differenti interpretazioni di tale soggetto propongono opere la cui origine affonda in radici tenacemente cresciute nei modelli della tradizione classica: le rappresentazioni di Cristo, nella virtuosistica corporeità della pittura di Corradelli, esprimono, figurativamente, tutta la singolare narrazione che già i Padri della Chiesa e gli scrittori cristiani dei primi secoli, sulla base delle testimonianze dell'Antico Testamento, tributavano alle ultime ore del Messia. Sebbene i dipinti risalgano a quarant’anni addietro, sono tutte opere inedite, e di esse la critica locale non si è mai occupata. Forse anche per questo, per la loro sconosciuta esistenza, noi, di fronte a tali inedite immagini del Cristo uomo, che percorre l’ultimo miglio della sua vita terrena, restiamo particolarmente colpiti da un realismo che si scioglie in esasperazioni espressioniste, che si immerge - e ci immerge - nello spasimo e nel supplizio, nella generosità del sacrificio e nell'amore per l'umanità. Commovente la deformazione, perfettamente funzionale all'intensità del dolore e dell'angoscia, nel Cristo Crocifisso dipinto su una piccola tavola nel 1970 (collezione Berzuini). L’incarnato appare realizzato con biacca, cinabro e pigmenti a base di ferro (in particolare terre verdi), dove l’uso abile della pittura, trattata senza compiacimenti, contribuisce ad esaltare una materia cromatica che, nella stesura dell'artista, diventa acquiescente e lieve. Ma questo piccolo Cristo Crocifisso coronato di spine appare anche come il frutto di una riflessione raffinata su come storicamente si plasma la bellezza di un modello iconografico, su come esistano margini enormi di intervento per riattualizzare un volto denso di innumerevoli memorie classiche, su come, infine, si possano interpretare i diversi umori espressivi alla luce di una preziosa sensibilità e di una sorvegliata sapienza tecnica.
I volti del Messia di Corradelli sono dunque una vera scoperta. La sfida con la tormentata bellezza del tema sacro continua nel Cristo del 1973, nel Cristo Verde e nel Cristo già intitolato La Sindone, entrambe, queste ultime due opere, realizzate nel 1975. L’indagine sottile dell’autore continua ad indagare la forza espressiva del volto e la dolce e sofferta accettazione del sacrificio: sulla base di un soggetto che non ha tempo né limiti, l'artista esalta una pregnanza formale che assume il sapore di un travagliato espressionismo, fra deformazione e naturalità, fra pittura sfatta e fluente. L'emozione diventa il tramite di una speciale metamorfosi.
Non esiste, nelle tre opere, uno spazio definito che permetta di capire dove si svolga l’azione, se nella sala del Pretorio oppure lungo la salita al Calvario o in cima alla croce, sul Golgota. Il pittore non lascia, infatti, intravvedere paesaggio, croce o architetture. Resta, davanti a noi, solo il primo piano del volto: è l’unico fulcro dello sguardo. E le tre sacre immagini, lievemente reclinate verso sinistra, si rivelano per la raffinatezza della materia cromatica consunta e martoriata, per una luce crepuscolare che si illividisce come nel grigiore dei tramonti d’autunno. Si può anche individuare, nelle palpebre abbassate del messia, nella sua remissione, nella delicatezza dell’espressione e nella pudicizia, un’approfondita meditazione sull’Ecce Homo del Caravaggio, il capolavoro dipinto nel luglio del 1605 per il nobile romano Massimo Massimi. L'evocazione caravaggesca rammenta, volutamente, la verità dell’incarnazione, il divino che si fa umano, la sofferta corporeità di una giovinezza forte e vitale che, nelle sembianze di un volto segnato dalla ferocia del dolore, mostra l'incombere della morte.
Il Dio che ha indossato un umano corpo di carne e che parla col perdono e con l'amore mostra, nel suo viso rassegnato e tumefatto, la propria infinita mitezza anche di fronte all’impietosa crudeltà di quella stessa folla che pochi giorni prima lo aveva acclamato con gli osanna. Ma Gesù procede imperterrito per riconsacrare col suo sacro sangue il cuore dell’uomo cacciato dall’Eden. È questo uno struggente brano d’arte sacra che ripercorre, in maniera autonoma, l’eterno interrogarsi sulla morte. E Cristo parla con il linguaggio espressionista dell’angoscia esistenziale. L’immagine si palesa tramite cromie illividite e palpitanti di senso, con una materia desolata e desolante, tra il narrato del peso della solitudine della croce e una condizione di dolorosa incomunicabilità che si alimenta delle punte aguzze dei chiodi che a breve trafiggeranno le sue carni. In bilico tra realismo ed esasperazione dell’immagine, il volto del Messia parla dunque della paura, dell’angoscia e del dolore. Il fulcro pittorico dell’opera risiede proprio in quella lignea croce e nel disagio di quel volto con la bocca socchiusa da uno spasimo, in quelle palpebre abbassate che si negano la vista della folla, in quel silenzio di fondo che echeggia l’oblio che succede al tonfo quando in uno stagno annega la pietra scartata da costruttore.
Ed è quindi questo ridotto nucleo di Crocifissioni e soggetti sacri riscoperti a segnare l’ideale punto di arrivo del nostro autore: opere di modeste dimensioni ma di grande impatto emotivo, quasi ex voto di una grazia in divenire, come avviene per la piccola Deposizione al sepolcro, opera unica sia per i traguardi della sua ricerca sul colore sia per la novità del linguaggio. Qui, infatti, l’estremo della morte lascia già palpitare l’urgenza resurtiva.
E se avventurarsi nell’indagine del volto del Messia straziato dal supplizio della croce era per l’autore un compito difficile e rischioso, altrettanto impegnativa si presentava l'interpretazione della Madonna: corredentrice, unica nelle sue caratteristiche di donna, madre e vergine, portatrice di sfaccettature della sensibilità femminile insostituibili per quella nuova alleanza capace di dare slancio e vitalità alla religiosità cattolica.
Di qui nasce per l'artista un rinnovato dialogo sacro con chi osserva, che va ben oltre la produzione artistica convenzionale. L’intuizione creativa dell’autore sa declinare il mistero della Vergine/Madre sulle corde di una ispirazione tutta personale: Corradelli trasforma la devozione in autentica emozione e l'emozione, sulla tela, diventa strumento per sperimentare, con colori e forme, come si possa rendere al meglio un messaggio di fede che ha cavalcato due millenni di storia. Ne risultano immagini legate sì alla bellezza femminile ma, soprattutto, alla calibratissima forza espressiva del pittore. Non utilizza per la Vergine i colori accesi di rosso: il dialogo con la madre del Messia sollecita piuttosto una visione poetica delicata e aggraziata: il pittore fa ricorso all’idea antica, moderna e demiurgica del suo saper fare, all’abilità che gli deriva dai suoi studi classici giovanili. E, nella solitudine dei segni e del cromatismo, non può che ritrovare l’ambiguità e l’inafferrabilità della significazione con un ritratto di giovane Vergine Maria (1970), nelle cui forme risuona la religione dell’arte del Novecento. Vasco Corradelli affonda la sua tavolozza nei colori delle speranze che emergono dalle Sacre Scritture, e il suo ritratto della Madonna esalta una pittura fatta di limpidezza e di luminosità tagliente e chiarificatrice.
La giovane Maria sembra volersi apparentare alle soluzioni del Casorati del ritratto di Silvana Cenni: un magico ritorno all’ordine che insegue l’antica bellezza di Giovane romana (ritratto di Adriana), un’opera del 1944 dedicata alla futura moglie. La Madonna azzurra (1975), una giovane madonna annunciata, è invece caratterizzata da un volto reclinato, nelle cui fattezze si inserisce in una linea di contorno perfettamente armoniosa, a tracciare un’espressione malinconica. È una Maria probabilmente già assorta nella meditazione del miracolo rivelato dall’Arcangelo Gabriele, verginalmente turbata dalle parole del nunzio dell’Altissimo. Ed è una Maria che riecheggia, nella dominante azzurra, il Picasso pre cubista, immalinconito nel suo 'periodo blu'. Ma qui, nella stesura personale e soggettiva del colore, il segno vibra rapido e nervoso, perfetto per esaltare, nell’intimistica dignità della Vergine, la sacralità di ogni donna. È invece un Picasso cubista ad ispirare la Madre con bambino (1985/90), un disegno a penna su carta sopravvissuto alla voracità del tempo: l’essenzialità dei volumi riprende a prevalere, superando la soglia delle convenzioni del puro visibilismo, e nuovamente suggerisce i segreti di una pittura vissuta nella costante tensione della poeticità.
Ma ormai non resta che dare conclusione ad un percorso, inevitabilmente breve ma, spero, sufficientemente significativo, capace di ricostruire, di Vasco Corradelli, l’autenticità di una vocazione espressiva costantemente e tenacemente coltivata e l'appassionata, intima e solitaria avventura pittorica. L'avventura di un artista intento sempre a riflettere sulla transitorietà delle illusioni dell'arte ma anche disposto a cimentarsi con la difficile prova dei soggetti sacri. Abbiamo solo sfogliato un capitolo di una storia che mostra gli speciali stati d’animo dell’artista per aprire, a tutti, i recessi profondi della sua memoria, per immaginare altri capitoli della sua storia e della sua pittura. È un solo capitolo, dunque, ma spero sufficiente ad infondere nel lettore e nel riguardante i miei stessi meccanismi di scoperta, di piacere, di spinta contemplativa e meditativa: quei meccanismi che, grazie ad una comune empatia, possono far trovare, nella essenziale sintesi di un percorso, la validità e le ragioni estetiche di poco più che venti ottimi lavori.
GIANFRANCO FERLISI
Mantova, maggio 2017